Sono molto critica verso le parole che scrivo.
Perennemente affascinata dall’infinita combinazione di sfumature, espressioni, forme, dettagli, punti e virgole, mi confronto con il bisogno, quasi fisico, di mettere per iscritto i pensieri, e la consapevolezza, a volte tormentata, che l’abilità non è mai del tutto acquisita.
D’altronde, se Ezra Pound afferma che Una fondamentale accuratezza d’espressione è il solo principio morale della scrittura, Theodor Adorno, in Minima Moralia, sostiene che Non c’è correzione, per quanto marginale o insignificante, che non valga la pena di effettuare. Di cento correzioni, ognuna può sembrare meschina e pedante; insieme, possono determinare un nuovo livello del testo, mostrando chiaramente di essere “affetto” dalla mia stessa malattia.
Ieri, però, ad ArteLibro, Mostra Mercato del libro d’arte, nei saloni di Palazzo Re Enzo e del Podestà, a Bologna – peccato per l’allestimento sottotono–, ho trovato una copia del Manifesto tecnico della letteratura futurista.
Per Marinetti, l’abolizione della sintassi e della punteggiatura, i verbi all’infinito, la disposizione a caso dei sostantivi, l’abolizione di aggettivi e avverbi sono il lasciapassare delle parole in libertà e dell’immaginazione senza fili.
Riprodurre, senza mediazioni tra ispirazione ed espressione, rumori, suoni, odori, movimento e mutamenti, è il modo per perdere il filo logico e per collocare sulla pagina le parole così come nascono nella mente.
Che dire? Illuminante e liberatorio… al diavolo tutti gli scrupoli!