Qualche settimana fa, nel supplemento del Corriere della Sera, è uscito un editoriale di Luigi Ripamonti sulla “buona” letteratura, pezzo che mi ha regalato una (l’ennesima e gradita) riflessione sulla bellezza e sulla forza della lettura, cui nel prossimo intervallo ferragostano potrò dedicare più tempo.
Perché, se scrivere è il mio mestiere, leggere è l’altra faccia della medaglia. Il flusso di contaminazioni tra scrittura e lettura è continuo, tanto che l’esistenza dell’una è impensabile senza l’altra.
Non esiste scrittore che non sia anche un lettore.
Per natura, la parola per essere scritta deve prima essere letta, appresa e fatta propria.
Leggere un libro vuol dire prima di tutto farsi leggere. Un buon libro sa entrarti nell’anima, scardina cassetti chiusi da tempo, apre fessure su mondi mai esplorati e fa filtrare la luce da stanze ignote, che scopriamo esistere dal momento in cui ci lasciamo conquistare dalla storia. Il potere straordinario della lettura sta in questo: far riverberare dentro di noi le parole, in un abbandono tutt’altro che passivo e subordinato. È un brulicare di vite, oltre la nostra, di riflessioni, di intuizioni, di sguardi sul mondo e sulle persone. Lo slancio ancestrale dell’immaginazione.
Citando Luigi Ripamonti, «un buon romanzo non asseconda la nostra pigrizia mentale, non ci lascia così come ci ha trovati» perché «un libro è formativo quando dà forma a chi lo legge». Leggere richiede uno slancio di fantasia: i libri entrano dentro e rivoluzionano il tuo mondo, creando mulinelli d’aria che scompigliano il paesaggio e costringono alla stupefacente esperienza di riadattarlo.
Che cosa caratterizza un buon libro, quindi?
Il potere straordinario di 26 lettere dell’alfabeto capaci di costruire e costruirti in un colpo solo.
Photo credits: Ferena Lenzi