Scrivo tutti i giorni, per lavoro, senza mai pensare sia lavoro.
Le parole scivolano dalla mia testa alla tastiera e si concretizzano rapide sullo schermo del computer in segni muti eppure sonori, e tale condizione mi appaga, incuriosisce e diverte sempre.
Eppure, ci sono “altre” parole che assumono, nella mia mente, forme più invadenti. A volte hanno il sapore dell’urgenza, altre la forza della liberazione, altre ancora il peso dello sfuggimento. Sono parole che fanno rumore. Spesso, baccano.
Quando non possono più essere contenute, le scrivo e le chiamo, con imbarazzo, poesie.
Rimangono chiuse in una cartella. Segrete. Inibite.
Poi ci sono i poeti veri. Che le parole hanno pubblicato e delle quali si sono in qualche modo spogliati.
Di loro scopro altrettanti sforzi: liberarsi dei proprio limiti o trasformare l’inconcretezza del pensiero e la fragilità delle intuizioni in segni tangibili.
La parola scritta diviene traccia, esperienza tangibile di sé, eredità oltre la fisicità, capace di durare oltre il tempo, oltre la vita.
Così Valerio Magrelli, in Ora serrate retinae (Feltrinelli, 1980)
Essere matita è segreta ambizione.
Bruciare sulla carta lentamente
e nella carta restare
in altra nuova forma suscitato.
Diventare così da carne segno,
da strumento ossatura
esile del pensiero.
Ma questa dolce
eclissi della materia
non sempre è concessa.
C’è chi tramonta solo col suo corpo:
allora più doloroso ne è il distacco.
Photo credits: Ferena Lenzi